Coppia more uxorio, la violenza integra i maltrattamenti

Maltrattamenti in famiglia anche per le coppie more uxorio

La convivenza more uxorio, brocardo latino per indicare le coppie che instaurano un regime di vita di piena convivenza l’un l’altro senza essere sposati, è oggetto sempre più di analisi e contrasti giurisprudenziali.

Ed invero, la coppia che decide di andare a vivere sotto lo stesso tetto è oggetto ormai di una tutela sia civile che penale.

Precedentemente, la legge tutelava legalmente solamente le coppie che si univano in matrimonio dal quale ne derivavano una serie di diritti ed obblighi.

Fino agli anni ‘90 probabilmente questa disposizione normativa poteva sicuramente avere senso.

Negli ultimi anni si è assistiti ad una evoluzione (o involuzione a seconda del punto di vista)  del concetto di coppia instaurato tra i partner, i quali improntano un regime di vita non più basato sul matrimonio ma bensì soltanto sulla convivenza di fatto o regime more uxorio.

Detto cambiamento, oggetto ormai anche di varie pronunce della Corte di Cassazione, ha fatto rientrare anche le coppie omosessuali per le quali vale il “il diritto a un trattamento omogeneo a quello assicurato dalla legge alla coppia coniugata”.

Dal punto di vista penale, la giurisprudenza è intervenuta nel volere tutelare i profili di responsabilità che possono incorrere le coppie more uxorio seguendo un orientamento consolidato nella configurazione del reato di maltrattamenti, di cui all’art. 572 c.p., estendendo le maglie giuridiche del predetto delitto (che inizialmente riguardava solo i reati commessi all’interno della famiglia derivante dal matrimonio) e facendo ricomprendere adesso anche la famiglia di fatto.

Detto reato, che punisce colui che “maltratta una persona della famiglia o comunque convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte, è punito con la reclusione da due a sei anni”, la giurisprudenza l’ha applicato anche in quei rapporti connotati da stabilità e reciproca assistenza al di fuori del matrimonio.

Da ultimo, la Corte si è pronunciata stabilendo che “la cessazione della convivenza non esclude, per ciò stesso, la configurabilità di condotte di maltrattamento tra i componenti della coppia quando il rapporto personale di fatto sia stato il risultato di un progetto di vita fondato sulla reciproca solidarietà ed assistenza”.

Ribadendo, pertanto, un suo orientamento consolidato, la Corte afferma che, nei rapporti tra coniugi separati legalmente, permangono, sia pure in forma attenuata, reciproci obblighi di rispetto, assistenza morale e materiale e collaborazione nell’interesse della famiglia, la cui violazione integra il delitto di cui all’art. 572 c.p. (così Cass., Sez. 6, sentenza n. 50333/13).

Tali obblighi vengono meno solo con il divorzio; pertanto, da quel momento non è più configurabile la fattispecie di maltrattamenti.

Quindi, gli obblighi, nel caso di semplice allontanamento del convivente dalla casa familiare, permangono comunque in capo alle parti.

In presenza, però, di un figlio nato dal rapporto di coppia le cose decisamente si complicano.

La permanenza di obblighi verso il figlio (naturale) da parte di entrambi i genitori, nonostante la fine della convivenza, segna il permanere dei doveri di collaborazione e reciproco rispetto.

Ciò significa che, la cessazione della convivenza o il divorzio non comportano il venir meno tout court del consorzio familiare, con la conseguenza che eventuali condotte contrarie all’assistenza e alla collaborazione reciproca integrano senza dubbio il delitto di maltrattamenti.

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